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martedì 5 gennaio 2010

Uno virgola due

“Mi chiedevo come mai, sempre più spesso, sentivo le donne
lamentarsi per soprusi e ingiustizie subite sul lavoro durante o dopo la maternità. Ho deciso di iniziare una ricerca e ho pubblicato annunci sui giornali per chiedere alle madri di scrivermi e di raccontarmi le loro storie.
La quantità di testimonianze ricevute mi ha fatto capire
quanto il problema fosse esteso a un gran numero di donne,
senza distinzione di provenienza o classe sociale.
Donne che vengono punite per aver avuto un figlio, donne a
cui vengono tolte le mansioni di responsabilità, donne che
vengono licenziate o, quando la legge non lo permette, vengono messe in condizioni tali da essere costrette a lasciare il proprio lavoro. Intanto l’Italia è in allarme. Da anni è il paese con la più bassa
natalità al mondo. Il numero medio di figli per donna è fermo a uno virgola due. Poco più di un figlio a testa. Chi ha sfidato il sistema una volta, quasi mai ripete l’esperienza.”


Tempo fa lessi queste parole di Silvia Ferreri e scoprii che da quella ricerca erano nati un libro e un documentario: Uno virgola due. Il lavoro mi piacque molto e chi è stato presente a qualche presentazione del mio libro ne avrà già sentito parlare perché lo cito sempre per l’attenzione che ha avuto l’autrice su maternità e mondo del lavoro. Parallelamente alle interviste a donne che narrano la situazione da loro vissuta, scorrono flash della storia delle donne della famiglia di Silvia. Dal 1900 in avanti. E mentre procedono gli anni il numero di figli partoriti da ogni donna, diminuisce. Perché l’Italia è un paese nel quale una donna che sceglie di non diventare madre subisce una pressione sociale forte e domande inopportune, ed è anche il paese nel quale una donna che sceglie invece di diventarlo riceve pochissimo sostegno. Silvia Ferreri, attrice, regista, autrice del libro e del documentario ha da poco aperto questo blog, dove troverete ulteriori riferimenti in merito a Uno virgola due, e il progetto di una nuova ricerca. Il problema lavoro non è affatto risolto. Tutt’altro. La ricerca di Silvia continua. So che alcune lettrici di questo blog hanno vissuto e vivono sulla loro pelle questa dura realtà. Vogliamo aiutarla in questa ricerca?

domenica 13 dicembre 2009

Un'ora sola ti vorrei

Quando avevo visto il documentario Un’ora sola ti vorrei, il mio libro era già in stampa, e mi era spiaciuto non averne scritto. Rimedio qui, e troverete qui il post scritto da Silvietta sullo stesso tema. La regista Alina Marazzi racconta la storia di sua madre: Liseli Hoepli, suicida a trentatré anni. Lo fa attraverso le fotografie, i diari, le lettere e i filmini di famiglia che se ne stavano chiusi, nascosti in un armadio come le cose da dimenticare, di cui avere vergogna. Liseli Hoepli era nata in una famiglia dell’alta borghesia, si era sposata e aveva avuto due figli. Poi, la depressione. Chissà quanti si stupivano del suo malessere! Lei che viveva in un mondo dorato fatto di vacanze lussuose, parchi privati nei quali spingere una carrozzina, case che erano palazzi e abiti eleganti. Come se il denaro potesse allontanare il dolore. In quel caso il denaro ha allontanato lei in una clinica Svizzera, ma non ha risolto il suo senso di inadeguatezza, il suo sentirsi allo stretto in quella vita non sua.
Le inquietudini che la tormentavano avevano fatto la loro comparsa in modo massiccio nell’adolescenza, ma invece di allentarsi nell’età più adulta, si erano amplificate nella maternità. C’è un’immagine nella quale lei percorre con la carrozzina, in solitudine, le strade di una Milano in pieno Sessantotto e credo che sarebbe stata molto meglio in compagnia di un bel gruppo di donne che cominciavano in quegli anni a organizzarsi un po’. Sarebbe stata meno sola.
Alina Marazzi, quando ha realizzato il documentario, nel 2002, aveva trentasette anni: quell’età nella quale diventa urgente fare i conti con la propria storia, e lei lo ha fatto in modo struggente, rimettendo insieme i pezzi sparsi della storia di sua madre. Ridandole vita.


Della stessa autrice, vale la pena di leggere il libro e vedere il documentario Vogliamo anche le rose. Lo sguardo che Alina ha sulle donne è uno di quelli che è bello condividere.

domenica 20 settembre 2009

L'amore nascosto

Film pesante. E dire che io sono una di quelle che ha amato “Le onde del destino” di Lars von Trier, tanto per rendere l’idea. Ma di questo film, che è la storia di un tragico rapporto madre-figlia, ho poco apprezzato i silenzi che sono davvero troppo lunghi e rischiano di smarrire il loro significato. O forse la mia noia è stata semplicemente una difesa dall’intenzione del regista Alessandro Capone nel rappresentare un odio estremo madre-figlia. E’ un odio senza rimedio, senza speranza, senza evoluzione. Si incarna in una malattia che fa trascorrere alla madre lunghi periodi in una clinica psichiatrica e in un colpo di scena finale che ovviamente non scrivo. Senza dubbio il regista ha dato voce e immagine alle parti oscure della maternità. A quelle più estreme. E’ tratto dal libro “Madre e Ossa” di Danielle Girard ed è stato girato a Parigi nel 2007. La madre è interpretata da Isabelle Huppert, la figlia da Mélanie Laurent, e la psichiatra da Greta Scacchi. Una cosa ho amato parecchio: Greta Scacchi e Isabelle Huppert stanno naturalmente invecchiando e sono bellissime senza silicone e rigonfiamenti vari.

lunedì 13 aprile 2009

Abbiamo bisogno di padri

Sono andata al cinema, a vedere Gran Torino. E’ un bel film, che sta avendo quasi ovunque ottime recensioni. In effetti tocca dei temi importanti: la solitudine della vecchiaia, l’orrore della guerra e i suoi indelebili incubi, la difficoltà di relazione tra genitori e figli e tra vicini di casa, la problematicità dell’integrazione razziale e in generale il tema del bene e del male.
La relazione che Clint Eastwood instaura con il ragazzino Tao non è certamente consueta tra i padri e i figli di oggi. Indubbiamente, in passato, è stato importante che l’autoritarismo nell’educazione abbia smesso di essere la regola. Troppo dolore aveva seminato quella distanza e quella durezza nell’educare i figli delle generazioni precedenti.
Ma come a volte accade, per guarire da un eccesso, ci si ammala dell’eccesso opposto. E abbiamo avuto modo di osservare bene cosa succede ai ragazzi quando crescono senza regole e limiti. Clint Eastwood è a tratti molto duro con Teo, suo vicino di casa, con il quale per una serie di circostanze si trova a passare del tempo. Di sicuro non lo tratta da amico. Non concede sconti alla fatica e lo allena alla frustrazione. Eppure rappresenta una figura paterna molto importante che sostituisce egregiamente un padre assente.
Per fortuna nella vita ogni tanto si trovano dei sostituti. Penso però che uno dei motivi del successo di questo film sia dovuto al fatto che Clint Eastwood, dando vita a una figura maschile sì burbera, ma affettuosa a modo suo, e decisamente autorevole, abbia colto un bisogno forte della società.


domenica 1 marzo 2009

Billy Elliot

E io che pensavo che Billy Elliot fosse un film che illustra molto bene cosa può accadere in una famiglia quando c’è un lutto troppo grande da sopportare, e tutto si congela. E quel dolore freddo come il ghiaccio dopo un po’ si scioglie e diventa rabbia e così succede che quella rabbia si trasforma e diventa altro. Per esempio la possibilità che la vita riprenda a scorrere attraverso un sogno da inseguire, così potente che la rabbia diventa forza e poi sostegno a chi a quel sogno non rinuncia. E invece scopro qui che di Billy Elliot è solo l’ultima immagine del film che viene usata come modello. L’ennesimo modello di successo propinato ai nostri figli, l’obiettivo da raggiungere. Tacendo una volta ancora l’importanza del viaggio, della disciplina, del coraggio, della speranza, e sì, anche del dolore e della capacità di trasformarlo, che in tutto il film sono così ben descritti.